Lo scorso 18 giugno si è svolto al CEMEDIS, il Centro di Simulazione del CEFPAS, il corso “Gestione del paziente straniero nelle emergenze”, rivolto a medici e infermieri dei pronto soccorso e del 118. L’aumento dei fenomeni migratori in tutta Europa e in particolare in Italia rende frequente per i sanitari addetti alle emergenze la problematica di doversi relazionare con persone provenienti da paesi e culture diverse, spesso anche in possesso di scarsi strumenti linguistici. La comunicazione, in tali contesti, è resa più complessa dalla necessità di essere rapidi ed essenziali. Tra le docenti dell’attività formativa: la psicologa e psicoterapeuta Valentina Vegna e AbrahaYodit Abebe, psicologa e mediatrice culturale che abbiamo intervistato.
Valentina Vegna, psicologa e psicoterapeuta
Intervista a Valentina Vegna, Psicologa e Psicoterapeuta
Qual è stato l’obiettivo del corso “Gestione del paziente straniero nelle emergenze” che si è svolto il 18 giugno al CEMEDIS?
Il corso è figlio di una visione lungimirante e, al contempo, di un’assunzione di responsabilità nei confronti del personale sanitario per la cui formazione il CEMEDIS è punto di riferimento e specializzazione. Alla luce dei bisogni formativi rilevati in questi anni e dell’esperienza dello staff interno e delle professioniste esterne, è stato messo a punto un dispositivo volto a sensibilizzare e preparare medici e infermieri/e alla multifattorialità dell’assistenza ai/alle pazienti straniere e all’acquisizione di informazioni e competenze specifiche direttamente sperimentate nel contesto protetto della simulazione e successivamente elaborate ed esportabili una volta tornati/e nei contesti professionali di provenienza.
In che modo i medici e gli infermieri possono relazionarsi con i pazienti stranieri in situazioni di emergenza?
La domanda è interessante e ben formulata! Individuare soltanto la comunicazione come elemento cogente nell’incontro tra persone di diverse culture è limitato e limitante. L’assistenza sanitaria in emergenza – così come in regime di degenza ordinaria o di prestazioni ambulatoriali – ha come presupposto la consapevolezza dell’essere in relazione con altri mondi e declinazioni esistenziali e culturali, in cui la nudità e l’integrità del corpo, essere maschio o femmina, l’invasività delle cure, la vita e la morte possono essere concepiti in maniera differente, a volte anche polare, rispetto alla dimensione antropologico-sociale e scientifica di chi accoglie.
Va, inoltre, considerato che la macrocategoria “straniero/a” include una molteplicità di identità linguistiche, culturali, etniche, religiose e che il diritto di acceso a prestazioni sanitarie specialistiche dipende dalla provenienza da Paesi dell’Unione Europea o extracomunitari, dall’eventuale copertura assicurativa e della regolarità della presenza in Italia. La persona irregolarmente presente sul territorio italiano viene registrata con un codice alfanumerico denominato STP (Straniero Temporaneamente Presente), di durata semestrale e necessario e sufficiente all’erogazione dell’assistenza sanitaria in emergenza e di base. Per tale regione, se affetto da patologia che richieda terapie specialistiche, il/la paziente con STP potrà anche chiedere la concessione di un titolo di soggiorno per cure sanitarie, abitualmente concedibile soprattutto nel caso in cui nel Paese d’origine non siano disponibili o non in linea con i parametri scientifici riconosciuti a livello internazionale. L’assistenza a pazienti stranieri/e implica la necessità di dotarsi di competenze linguistiche e socio-culturali di base, ma anche di conoscenze relative alle rotte migratorie e ai fattori migratori push e pull, cioè quelli che determinano la partenza dai Paesi di origine o di transito e quelli attrattivi nei Paesi di primo approdo o scelti come destinazione finale. È, inoltre, necessario tener conto dello “stato di salute dei diritti umani” nei Paesi di provenienza e di transito, in cui spesso le persone migranti sono sottoposte a trattamenti inumani e degradanti, violenze psicologiche, fisiche e sessuali, tortura e anche omicidio. Un’attenzione speciale va tributata al trafficking, alla tratta e alla violenza di genere, con attenzione agli esiti di matrimoni forzati, stupro e mutilazioni genitali femminili. Tali conoscenze vengono acquisite con lo studio teorico e, ancora di più, nell’incontro con l’esperienza migratoria narrata o anche solo mostrata nei suoi effetti fisici e psichici.
Medici e infermieri, autisti soccorritori, OSS, assistenti sociali e psicologi, tutti insieme e ciascuno per la propria competenza, possono approcciarsi in maniera gentile e fornire informazioni chiare relative al contesto, all’identità e al ruolo professionale di ciascuno e delle procedure sanitarie che verranno attivate, soprattutto se dolorose o comunque invasive o solo potenzialmente lesive dei codici culturali di provenienza. È fortemente indicato il ricorso ad una lingua ponte conosciuta da stranieri e personale sanitario, nell’eventualità in cui l’équipe non preveda la presenza di un mediatore o di una mediatrice culturale. In condizioni estreme o in attesa dell’arrivo di un interprete/mediatore, può essere utile ricorrere a traduttori online tramite dispositivo elettronico, nella consapevolezza che l’80% della comunicazione passa per il canale non verbale e che dunque non sono trascurabili gestualità, contatto, tono di voce. La sola risposta possibile alla complessità proposta dai bisogni assistenziali delle persone straniere in emergenza è rappresentata da un intervento multidisciplinare volto a prendere in carico la persona nel suo complesso, avendo cura di individuare indicatori di vulnerabilità e di rischio anche in assenza di sintomi fisici o cicatrici e assicurando un’assistenza ad elevatissimo grado di umanizzazione a minori stranieri non accompagnati e donne, spesso vittime di violenza intersezionale. Voglio aggiungere che è di primaria importanza che i sanitari ricevano una formazione di base riguardo alle procedure legali e che siano consapevoli dell’impatto che l’atto clinico, dal primo soccorso alla certificazione di patologie o esiti di violenza, ha sulla vita dei pazienti stranieri e sulla comunità che li ospita.
Quali sono le difficoltà maggiori che gli operatori sanitari incontrano quando queste persone arrivano nel nostro Paese?
Concretamente, può accadere che una donna non accetti di essere visitata da un medico uomo o che venga rifiutato il consenso per un trapianto d’organo o per la donazione in caso di decesso di un familiare. Ancora, parto e allattamento possono costituire nodi critici, così come i criteri e la pratica per l’IVG (interruzione volontaria di gravidanza, ndr). Inoltre, risulta spesso impossibile comprendere e contenere comportamenti dirompenti, se non si conoscono le premesse psico-sociali che le sottendono o gli eventi trigger che li sollecitano. La “difficoltà” in assoluto, la prima e quella che riassume tutte le altre concorrenti o che ne conseguono, è data dal non comprendere o, meglio, non comprendersi reciprocamente sanitari e pazienti stranieri/e. In emergenza, l’incontro, il soccorso, la raccolta dell’anamnesi, la diagnosi e le terapie sono spesso intralciate da barriere linguistiche e culturali, coartazione anche per via della sofferenza fisica, sfiducia e pregiudizi culturali reciproci, differenti rappresentazioni della malattia e del dolore.
Altre variabili significative vanno considerate la criticità della situazione in cui si interviene (numero di persone soccorse/assistite, età e vulnerabilità, gravità della problematica presentata dalle persone straniere soccorse, ecc.), competenza specifica e pregressa esperienza dei sanitari, numero e genere di infermieri/e e medici coinvolti e la capacità dell’organizzazione di offrire un modello assistenziale multidisciplinare in una visione olistica e intersistemica come raccomandato dall’OMS. Se la cura in emergenza del/la paziente straniero/a rappresenta una sfida ipercomplessa, va anche detto che la percezione della difficoltà è variabile: uno staff multi professionale e poliglotta e già esperto nell’approccio al paziente straniero anche in maxi emergenze ha certamente una percezione più attenuata della difficoltà della situazione in cui interviene rispetto al medico e all’infermiere/a che per la prima volta si confronta con sintomatologie ignote o difficili da decodificare.
Quali consigli darebbe ai professionisti sanitari per costruire rapporti di fiducia con i pazienti stranieri?
Medici, infermieri e infermiere sanno bene quanto la relazione con la persona sofferente di qualunque provenienza sia preziosa nell’accelerazione della tempistica delle azioni diagnostiche e cliniche, soprattutto in emergenza, e quanto influenzi la compliance in generale. I pazienti stranieri sono stranieri, ma prima di tutto sono persone come i sanitari impegnati nell’intervento, dunque la competenza tecnico-scientifica dovrà operare in assenza di pregiudizi, con comprensione empatica per lo straniamento dovuto quantomeno al trovarsi in un contesto sconosciuto e in stato di sofferenza e preoccupazione. Una buona accoglienza è resa possibile da alcuni accorgimenti quali: presentarsi con nome e ruolo, chiedere alla persona il suo nome e da dove provenga, spiegare a parole o a gesti e in maniera semplice dove ci si trova e cosa accadrà anche nel breve termine, possibilmente curando il canale linguistico e dedicando un/a professionista dello stesso sesso o particolarmente esperto nella relazione con persone straniere. La fiducia può costruirsi soltanto se il/la paziente si sente al sicuro. Da questo dipenderà il suo affidarsi a sconosciuti per cure anche queste ignote nell’auspicio di una risoluzione almeno della situazione emergenziale.
Per favorire l’affidamento della persona straniera e le pratiche di stabilizzazione e sanitarie d’emergenza, la SEUS e le aziende sanitarie potrebbero forse predisporre del materiale informativo cartaceo e dei messaggi preregistrati nelle principali lingue straniere e in quelle più parlate dai/dalle migranti che accedono ai servizi emergenziali siciliani.
Ci vuole raccontare un’esperienza particolare che ha fronteggiato nel corso della sua attività lavorativa?
Tutte le esperienze vissute con pazienti stranieri/e sono state particolari, anzi straordinarie! Un’esperienza speciale è stata quella di far parte di un’équipe costituita da un autista soccorritore, una mediatrice albanese e una nigeriana, una psicologa e un medico e di operare in una unità di strada rivolta a persone prostitute e prostituite, contattando le donne sul territorio e fornendo loro assistenza sanitaria, colloqui anche ai fini della fuoriuscita dalla tratta e accompagnamento ai servizi di emergenza, ginecologia e malattie infettive. Comprensibilmente, nessuna situazione poteva dirsi semplice, tuttavia tra le più delicate posso annoverare quella riguardante una giovane donna vittima di tratta costretta a prostituirsi anche in avanzato stato di gravidanza, soccorsa dall’unità mobile e successivamente “agganciata” e supportata psicologicamente e, su sua richiesta, trasferita in un’altra regione dove ha partorito ed è stata inserita in un centro di accoglienza con il suo bambino.
Presso uno degli ospedali in cui ho prestato servizio, invece, ho operato in équipe multi professionale in area di emergenza-urgenza incontrando un elevatissimo numero di giovani uomini e donne sub sahariani/e provenienti da differenti sbarchi e trasportati in elisoccorso da Lampedusa a Palermo. Trattandosi di pazienti critici, per la prevalenza di loro è seguito un periodo più o meno lungo di ricovero. A causa delle condizioni del viaggio, alcuni presentavano ferite da taglio, altri fratture, altri ancora ustioni da sfregamento, polmoniti per ingestione di acqua di mare e carburante, malattie infettive, sintomi gastrointestinali dovuti a infezioni o a malattie croniche. Con ciascuno/a di loro è stato messo a punto un dispositivo clinico differente, pur garantendo accoglienza, informazioni e colloqui con medici e psicologi in inglese o francese o con mediatori in caso di lingue rare. Terminata la fase emergenziale, il supporto e la presa in carico integrata venivano assicurati anche presso i reparti di degenza, poiché è anche lì che può delinearsi una nuova situazione di emergenza: la sintomatologia organica non può peggiorare e il paziente può manifestare indicatori di stress o reazioni ansioso-depressive anche gravi. Inoltre, non è irrilevante l’influenza amplificata che hanno sul paziente straniero l’ospedalizzazione, l’interruzione del viaggio verso una meta agognata (anche in caso di turismo, come nel caso di stranieri non migranti), l’isolamento relazionale in un contesto indecifrabile, la malattia e le emozioni negative esperite in conseguenza di questa, a maggior ragione se derivate dall’aver subito trattamenti inumani e degradanti, tortura o violenza.
Pertanto, avviata la relazione terapeutica in area di emergenza, anche attraverso la geolocalizzazione attraverso carta geografica e con la ripresa dei contatti con almeno un familiare, è stato possibile avviare processi di accoglienza e terapeutici durati anche mesi. Particolarmente delicato è il caso di un adolescente arrivato in area di emergenza dopo pochi giorni dall’inserimento post sbarco in una struttura per minori stranieri non accompagnati. I sintomi gastrointestinali sono risultati subito dolorosi e di difficile tolleranza da parte del ragazzino, anche per via di copiose emorragie e di una costante perdita di peso. Fortunatamente, il nostro ragazzino era francofono e questo mi ha consentito di condurre senza mediazioni i colloqui psicologici e, anzi, di tradurre quando il medico o l’infermiere in turno non parlavano il francese. Dopo alcuni accessi in pronto soccorso, il minore è stato ricoverato e sottoposto ad accertamenti da cui è emerso che era affetto da morbo di Crohn. La diagnosi è stata comunicata dal medico e alla presenza della psicologa, entrambi impegnati per alcuni giorni nel contenimento emotivo del ragazzino e nell’informazione chiara riguardo alle indicazioni terapeutiche, inizialmente rifiutate dal giovane paziente, molto spaventato e intenzionato a sottoporsi ad un intervento radicale e invalidante. Si è imposta la necessità di spiegare dettagliatamente caratteristiche della malattia e l’azione dei farmaci anche con il ricorso all’atlante anatomico.
Si è, inoltre, reso necessario agire nei confronti del tutore del minore per un esercizio più responsabile del suo compito stabilito per legge. Attualmente il ragazzino assume una terapia per somministrazione orale dopo un periodo di somministrazione di un altro farmaco per infusione e vive in un altro Paese europeo, dove risiedeva un cugino con cui si è ricongiunto legalmente. Sono solo due dei tantissimi casi trattati. Voglio sottolineare il ruolo fondamentale che ha avuto il coinvolgimento di tutti i sanitari nella gestione di tante complessità, già a partire dall’approvvigionamento di cibo in area di emergenza, anni fa non previsto e brillantemente garantito, anche avendo cura di non somministrare cibi interdetti per motivi religiosi. Straordinari medici hanno richiesto la consulenza psicologica in lingua inglese o francese o con mediatore e accettato di inserire in cartella clinica elementi del percorso migratorio, certificando – se presenti – infezioni, ferite e cicatrici e la loro eventuale compatibilità con esiti di trattamenti inumani e degradanti e violenza, contribuendo a invertire la traiettoria del sopruso e della violenza con attestazioni utili a sostenere richieste di asilo fondate.
La simulazione di casi reali si presta come metodologia formativa per questa tematica, quale impatto ha avuto nei corsisti la partecipazione ad uno scenario di gestione del paziente straniero?
Chi ha preso parte al corso ha avuto modo – in simulazione e nella fase di debriefing – di trovarsi in uno scenario che non sapeva essere tipico o, pur avendolo già vissuto professionalmente, si era trovato sprovvisto di strumenti sofisticati volti a offrire cure tempestive e appropriate a pazienti con bisogni speciali e complessi. La simulazione ha consentito ai/alle partecipanti di osservare e sperimentare prassi di intervento possibili, fino a quel momento impensabili. L’alternanza di fasi di sviluppo delle conoscenze, narrazione di casi studio e l’esperienza diretta ha impresso uno slancio potente dei singoli e del gruppo nel suo complesso: il paziente straniero “astratto” si è fatto concreto e ha costretto medici e infermieri, ad esempio, a confrontarsi con la difficoltà di ricostruire l’anamnesi a causa delle barriere linguistiche o con la frustrazione derivante dal dovere contemperare la gestione di emergenze somatiche e di fattori di vulnerabilità “invisibili” e, ancora, con il rischio di concentrare lo sguardo su alcuni aspetti assistenziali e perderne di vista altri. Il fare e l’osservare hanno tangibilmente sviluppato nei/nelle partecipanti curiosità, sensibilità, condivisione e auto riflessività. Tutto ciò in un clima caratterizzato da partecipazione e piacere per l’apprendimento, da mettere in pratica al “ritorno a casa”.
Qual è il vantaggio di impiegare la simulazione per approfondire il tema della gestione del paziente straniero in emergenza?
“Mai per la prima volta sul paziente” è il saggio motto del CEMEDIS. La simulazione in sanità rappresenta una palestra professionale posta a garanzia della gestione della complessità attraverso la sperimentazione diretta di innovative prassi di intervento sanitario, la prevenzione dell’errore e delle aggressioni al personale. I vantaggi sono molteplici e riguardano in primis la fissazione degli apprendimenti e lo sviluppo della consapevolezza della necessità di un approccio complesso al paziente straniero, presente nello scenario simulato con la sua domanda di aiuto a volte non formulata e a volte non decodificabile.
Nella gestione della presa in carico del paziente straniero, la simulazione consente di incontrarlo in uno scenario in cui singoli e squadre al completo sono immediatamente chiamati a confrontarsi con la necessità di superare ostacoli linguistici e culturali ai fini della raccolta dell’anamnesi e dell’attuazione di qualsiasi atto clinico. Dalla teoria diventa immediata l’organizzazione del gruppo per competenze specifiche e, se possibile o necessario, per genere. Per avere un’idea dell’enorme vantaggio derivante dall’impiego della simulazione nella gestione del paziente straniero in emergenza, a titolo esemplificativo possiamo guardare ad uno degli scenari proposti in simulazione. Abbiamo visto come paziente in accesso al pronto soccorso una donna tormentata da dolori al ventre derivanti dall’assunzione a domicilio di un farmaco non specificato per interrompere una gravidanza non voluta. Ebbene, gli uomini hanno mantenuto la responsabilità sull’intervento e si sono rispettosamente posti ai margini dell’accoglienza in favore della componente sanitaria femminile tempestiva e tempestiva nell’azione. Tuttavia, sanitari uomini e donne hanno orientato l’intervento in chiave “umanizzata” senza riuscire ad acquisire informazioni sufficienti e vedendo precipitare velocemente la condizione clinica della donna, finendo con il richiedere con insistenza l’intervento di un “terzo salvatore”, il mediatore nella prima fase e il ginecologo in fase di peggioramento.
È tipico che in condizioni emergenziali con pazienti stranieri/e spesso i sanitari vengano pervasi da sentimenti di frustrazione e impotenza, con la conseguenza di contare sempre meno sulle risorse interne di ciascuno e della squadra, compiendo così errori quali la delega ad altri professionisti o la pratica di accertamenti e/o cure inappropriati, con dispendio di tempo, energie psico-fisiche, spreco di risorse economiche, ecc… Il gruppo di partecipanti – anche attraverso il feedback degli osservatori – ha avuto modo di constatare di avere messo in atto nello scenario quanto appreso riguardo alla comunicazione, ma di avere concorso alla creazione dell’impasse clinica focalizzandosi sull’assenza di informazioni piuttosto che su quelle rilevate e perciò utili a formulare le ipotesi cliniche più fondate e ad escludere le meno probabili. Il processo autoriflessivo e la discussione in gruppo sicuramente condurranno i partecipanti a tener conto delle risorse personali e professionali disponibili, nonché degli elementi di cornice trattati durante il corso, prevenendo errori dettati da visioni aprioristiche e lo sbilanciamento della componente relazionale rispetto a quella sanitaria.
Intervista ad Abraha Yodit Abebe, Psicologa e Mediatrice culturale
Quali sono le difficoltà maggiori, dal suo punto di vista, di mediatrice culturale che gli operatori sanitari incontrano nel gestire un paziente straniero in situazioni di emergenza?
Il bisogno degli operatori sanitari nei casi di emergenza sicuramente è quello di individuare in tempi veloci i sintomi per poter intervenire tempestivamente. Tali episodi spesso sono resi difficili a causa delle barriere linguistiche e per la mancanza di mediatori inseriti nell’organico, anche a chiamata.
Quali sono le tecniche per superare le barriere linguistiche?
Sicuramente l’accoglienza emotiva è un punto di partenza per poter ’avviare il processo di riconoscimento e di affidamento agli operatori sanitari.
Quali invece i principi base della comunicazione interculturale?
La base della comunicazione dovrebbe favorire il confronto tra persone di culture diverse, per cui la consapevolezza dell’importanza di fare esperienza ed aprirsi ad altre culture, senza pregiudizi e preconcetti, è fondamentale. Tutto ciò è fattibile se si parte da se stessi con le proprie emozioni, le proprie fragilità e i propri punti di forza.
Nel nostro Paese ci sono abbastanza mediatori culturali per fronteggiare la presenza di pazienti stranieri?
Il problema delle mediazioni interculturali non è legato alla mancanza delle figure professionali, ma alla mancanza di fondi economici e della regolarizzazione dell’inquadramento lavorativo dei mediatori.
Durante il corso è stata fatta una panoramica dei fenomeni migratori in Europa e in Italia: da quali Paesi provengono la maggior parte dei migranti?
Nel 2024 la maggior parte dei migranti che sono arrivati sono bengalesi, siriani, tunisini ed egiziani, mentre nel 2023 il flusso maggiore degli arrivi riguardava l’Africa Subsahariana.
Quali scenari sono stati riprodotti in occasione del Corso “Gestione del paziente straniero nelle emergenze” al CEMEDIS?
Gli scenari affrontati sono stati numerosi e hanno offerto la possibilità agli operatori di mettersi in gioco con criticità differenti: dalla donna appena sbarcata con evidenti barriere linguistiche, alla donna residente nel territorio da qualche anno, ma che con la sua scelta di interrompere una gravidanza mette in discussione i principi morali di ogni operatore.
Quali sono stati, a suo avviso, i principali cambiamenti introdotti nelle strategie di gestione del paziente straniero a seguito della simulazione su scenario?
Secondo me alcuni operatori che già hanno avuto modo di operare in situazione emergenziali con pazienti migranti hanno avuto modo di rivedere il loro operato con una certa distanza emotiva e di riconoscersi nello sforzo e nel loro percorso, altri, invece, hanno probabilmente vissuto la frustrazione perché non sempre è possibile ragionare e riflettere sulla centralità del paziente a causa della mancanza di operatori.
L’intervista è stata realizzata dal Servizio Comunicazione del CEFPAS.
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